Erto

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Prima dell’immane tragedia del Vajont il 9 ottobre 1963, come in tutti i paesi di montagna, gli abitanti di Erto coltivavano la terra e allevavano bestiame.

L’attuale centro storico del paese, ora largamente disabitato, brulicava di vita. Ai bordi della via principale (ora Via Roma) si trovavano un gran numero di attività commerciali che servivano una comunità completamente autonoma.

Tutto quello che si poteva chiedere in termini di intrattenimento e servizi in un paese ben organizzato, a Erto lo si poteva trovare.

Erto prima dell'ottobre 1963
Erto durante il massimo invaso del lago del Vajont. Al posto del centro ricostruito c'era una distesa di pascoli.

L’attuale via maggiore che lo attraversa (da sud-ovest a nord), Via Roma, è stata costruita agli inizi del ‘900, durante un ampio riassetto urbano del paese che aveva come obiettivo la costruzione di una strada carrozzabile. Fino ad allora la strada maestra infatti, detta Vecchia Postale, non permetteva il passaggio di automezzi.

Essa si snodava lungo tutto il paese attraversandolo per intero nella sua parte inferiore.

Passando per la chiesa di Beórscia, si collegava alla frazione di San Martino attraverso il pónt da Méssa, un ponte del quale ormai rimangono solo testimonianze fotografiche. Proseguiva poi per tutti i paesi della Valcellina.

Il verso opposto della Vecchia Postale conduceva invece alle frazioni Le Spesse e del Cristo, a Casso e alla valle del Piave.

Da questa strada partivano le vie secondarie che lambivano le diverse borgate del paese: il fondovalle, con le segherie e i mulini e le frazioni oltre la valle del Vajont.

Per realizzare la carrozzabile fu demolito il vecchio campanile addossato alla chiesa che venne poi riedificato nella sua pozione attuale e inaugurato nel 1927. La sua forma venne cambiata. Prima della demolizione infatti il campanile era a punta, poi venne ricostruito com’è ora, a torre ghibellina.

In attesa della ricostruzione le campane rintoccavano sostenute da una semplice impalcatura in legno.

Vecchia Postale e Nuovo campanile
Ciò che rimane della Vecchia Postale e il Campanile ricostruito.

La vita prima del Vajont.

Al giorno d’oggi, all’inizio Via Roma (dal versante nord, opposto al cimitero) si trovano la piazza con Il monumento della Donna Ertana e l’ex municipio. In questo slargo e nella via successiva, si affacciavano un gran numero di locali pubblici e osterie come Il bar Da Giota (All’Alpino), per esempio. Ma in passato a Erto esistevano diverse altre osterie, almeno una ventina, dislocate in varie vie del paese, come il bar Da Tan, l’osteria Al Cacciatore, Segàt, il bar Stella e Da Pilìn, sulla piazza principale, che vendeva anche generi alimentari, sali e tabacchi.
Grazie ai numerosi ristoranti e luoghi di ritrovo, il paese poté perfino accogliere personaggi famosi che, per un motivo o per un altro, si trovarono a passare di lì.
Tra loro si ricordano l’alpinista triestino Julius Kugi e lo scrittore trevigiano Giovanni Comisso.

Appena prima della piazza principale, dal lato opposto della chiesa, c’è un blocco di edifici che ospitava l’ufficio postale, la bottega dell’elettricista e la macelleria gestita da un signore di Erto che veniva soprannominato Giga.
Giga era un uomo gentile e disponibile ma la sua altezza imponente e un volto indurito dalle fatiche lo rendevano una figura che tutti i bambini temevano. Ancora oggi gli ertani che lo hanno conosciuto ricordano: «Giga era buono come il pane, ma bastava dicesse “ah-a” e tutti i bambini scappavano terrorizzati».

Di fronte invece, si scorge un basso muretto. Era il punto d’incontro preferito degli ertani, anche quelli più anziani. Verso sera, dopo aver concluso i mestieri, si ritrovavano a fumare e a chiacchierare.
Nei mesi più freddi questo rito non veniva rinnovato a causa del freddo. Quando i giorni iniziavano di nuovo a farsi più miti, gli ertani iniziavano a radunarsi nuovamente attorno al muretto.
Per la gente del paese significava che l’inverno stava cedendo alla primavera, il cui sole ancora tiepido veniva chiamato al gabàn dei poaréth, il cappotto dei poveri.
Qui c’era anche l’unica fermata della corriera di linea della famiglia Giordani di Claut che, oltre alle persone, portava anche la posta. Se si guarda con attenzione, si può ancora scorgere la tabella arrugginita.

il muretto
Il famoso muretto dei ritrovi e, sullo sfondo, la via dei negozi con l'originale tabella della fermata delle corriere "Giordani".

Poco più avanti si trovava il panificio di Daci.
Daci era il panettiere di Erto e uno dei suoi abitanti più singolari. Gli ertani più anziani lo rammentano per la sua particolare e veemente protesta contro il governo italiano.
Quando autorità locali e politici si recavano in visita a Erto per campagne elettorali o comizi pubblici, il convegno si teneva rigorosamente in piazza.
In queste occasioni, Daci appendeva la camicia che indossava nel campo di concentramento di Dachau durante la sua prigionia e si sedeva all’aperto, guardando fisso negli occhi il politico che parlava.
Le sue intenzioni erano chiare: «Le uniche parole che valgono davvero, sono quelle migliori del silenzio», era solito dire.
Il panificio di Daci era uno dei tre forni del paese e il negozio vendeva persino gelati.

Il negozio di frutta e verdura era sempre attivo tutto l’anno e proponeva prodotti di stagione provenienti principalmente dai raccolti in surplus della valle di Erto ma anche dai paesi vicini.
L’ultimo proprietario di questo esercizio a Erto è stato Òselin.
I terreni di Erto, ricchi di minerali, garantivano la crescita di una buona varietà di prodotti: radicchi, carote, cipolle, mais. Le patate, assieme ai fagioli, essendo i più comuni, si vendevano anche per la semina.
I fagioli di Erto erano capaci di tollerare il freddo e crescere in abbondanza.
Oltre ai fagioli, a Erto esisteva un particolare tipo di insalata in grado di sopportare più di una gelata consecutiva durante la semina e perciò molto utilizzata. Essa resiste ancora oggi negli orti ertani.

Nella contrada San Rocco invece, al principio di una ripida discesa, dimorava Mano del Conte, leggendario fabbro ertano dall’animo artista.
La sua casa è disabitata ormai da molti decenni, da quando il geniale artigiano morì attorno agli anni quaranta. Dell’edificio oggi rimane uno stabile squadrato di mattoni grigio chiaro. Soltanto l’uscio mostra ancora i segni della perizia del suo artefice, la maniglia e la serratura della porta sono ben costruite, eleganti, di lavorazione fine e pregiata.
Nella parte bassa della casa si trovava il laboratorio del fabbro.
A Mano del Conte si deve la costruzione dell’austero cancello in ferro battuto che protegge il cimitero di Erto, situato poco sopra a contrada San Rocco.
L’inferriata è posta fra due colonne di marmo che ammoniscono con severa saggezza i visitatori camposanto. Una reca la scritta: “Ero anch’io come sei tu e tu verrai come son io”, l’altra pare esprimere i capisaldi del vivere antico, secondo i princìpi di “fede e civiltà”.



A Erto si potevano trovare due tipi di locali: gli esercizi pubblici e le “frasche”, un termine usato per definire osterie clandestine.
Le “frasche” ertane erano vinerie rustiche a conduzione familiare. L’avventore assetato, oltre ai locali pubblici, disponeva anche di questi punti di appoggio non ufficiali, dove gli veniva servito vino in cambio di denaro.

Immagine suggestiva
Le frasche servivano in ogni momento gli avventori più assetati.

Non mancava ovviamente il negozio di frutta, verdura, il barbiere, il panettiere, l’elettricista, il fabbro, il calzolaio, sale da ballo; esisteva perfino una fabbrica di cera.

Nel fondovalle, dove correva il torrente Vajont, oltre a essere abitato dagli ertani, si trovavano anche mulini per la macinazione dei cereali e segherie.

Il fondovalle
Il fondovalle poco prima di essere sommerso dall'acqua del bacino artificiale.

L’ultimo calzolaio (scarpér) si chiamava Balila, e gli ertani meno giovani se lo ricordano ancora bene. Il suo negozio ora non esiste più.

Un tempo le scarpe erano un bene necessario,oltre che un modo per valutare le possibilità economiche dei paesani.
I più abbienti infatti potevano permettersi di acquistarle su misura (e alla moda) nei negozi di Longarone o Belluno.
Gli altri, privi delle stesse possibilità, usavano accomodare vecchie scarpe ancora fruibili per adattarle alle proprie esigenze. Quelle del figlio cresciuto ad esempio, venivano rammendate se necessario e passate al fratello più piccolo.
Un paio di vecchie calzature, regalate o gettate da qualcun altro, si recuperavano e usavano nuovamente, fino allo sfinimento di suola e tomaia. Per questo motivo l’attività dello scarpér era una delle più considerate del paese.

A Erto si usavano tre tipi di scarpe: scufóns, dàmede e palòte.
Realizzate a mano, erano molto usate da tutti, perché potevano essere prodotte velocemente e subito utilizzate.
Gli scufóns erano calzature di pezza leggere, che la maggior parte delle persone indossava nella quotidianità. Strati di tessuto trapuntati formavano la suola, la tomaia era di velluto nero decorato dal ricamo di un fiore vicino alla punta. Per le donne ogni colore del fiore andava bene, per gli uomini era preferibile il celeste e per i bambini il rosso. Il fiore era simmetrico così da distinguere la destra dalla sinistra.
In anni più recenti le suole venivano realizzate con gomma ricavata da vecchi copertoni.
Le dàmede invece erano calzature chiuse da lacci, con suola in legno e con tomaia in cuoio di scarpe ormai inutilizzabili. La suola aveva chiodi fissati per non scivolare. Le dàmede, una volta consumate, diventavano rudimentali “pattini da neve” per i bambini del paese.
Le palòte, infine, erano calzature aperte, in legno con tomaia in cuoio.

Il paese era autonomo anche nella produzione di candele. Esisteva infatti la piccola fabbrica Predhuàn che produceva lumi, lumini, ceri e quant'altro potesse servire ad aiutare le persone a vivere durante le ore più buie. I materiali usati erano principalmente paraffina e cera d'api.
Quando non esisteva l’energia elettrica, a Erto la scansione del tempo era imperniata sul ciclo naturale del giorno e della notte. L’ora era segnata attraverso l’uso di meridiane verticali. Quasi ogni casa ne possedeva una sui muri rivolti a sud-est. Tutte le attività che necessitavano di precisione e visibilità venivano svolte sfruttando la luce del giorno. Quella di candele e lanterne (ferèi) serviva più per socializzare e stare assieme la notte, nelle cucine o nelle stalle durante i filò.
Prima delle candele si usava la lùm: la radice di una pianta resinosa che, una volta accesa, manteneva a lungo la fiamma.
Anche l'illuminazione pubblica sfruttava la fiamma di candele e ceri.
All’esterno di ogni casa vi erano diverse lanterne che, tutte assieme, illuminavano il paese. Verso mezzanotte passava il lampionaio, che le spegneva grazie a un lungo bastone che terminava con una piccola cappa, utilizzata per soffocare le fiammelle delle luci pubbliche.

A Erto ne ricordano uno chiamato al Gòbo (il gobbo), e nessuno lo vedeva mai di giorno.

Foto di notte
Veduta notturna di Erto.