Il disastro del Vajont

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La catastrofe del Vajont è avvenuta nella notte del 9 ottobre del 1963 in una zona a cavallo fra le regioni del Friuli e del Veneto. Dal monte Tóc, situato nel comune di Erto e Casso in provincia di Pordenone, si staccò un’enorme frana che, precipitando nel lago artificiale sottostante, provocò una gigantesca ondata che si abbatté sugli abitati limitrofi e sulla cittadina di Longarone, radendola al suolo.

Il bacino del lago artificiale era stato creato con la costruzione di una grande diga a doppio arco posta a sbarramento del corso del torrente Vajont. Il torrente scorreva nell’omonima valle in Friuli, dove si trovano Erto e Casso, e immettendosi nel Piave giungeva in Veneto, a toccare il luogo dove sorgeva Longarone, oggi ricostruita.

La diga e l'invaso

Negli anni ‘40 la Società Adriatica per l’Energia Elettrica, impresa privata veneziana fondata dal conte Giuseppe Volpi di Misurata agli inizi del 1900, ebbe l’idea di creare un bacino idroelettrico in quella zona. Il progetto era quello di sfruttare la forza dell’acqua con la realizzazione di quella che all’epoca, con i suoi 265 metri di altezza, fu definitiva “la diga più alta del mondo”. Il progetto della diga del Vajont venne a far parte del cosiddetto “Grande Vajont”, un complesso che riuniva e collegava diversi bacini idroelettrici nelle valli circostanti. Fu ideato e realizzato dalla SADE, che ottenne praticamente il monopolio per l’utilizzazione delle acque dell’intera zona per la produzione di energia elettrica.
La SADE sarebbe in seguito divenuta proprietà dell’Ente Nazionale Energia Elettrica, dopo la nazionalizzazione delle aziende elettriche nel 1962, trasferendo la gestione e il controllo della diga del Vajont sotto la giurisdizione dell’impresa pubblica.

la diga in costruzione
Immagine della diga del Vajont durante la costruzione.

Giochi di potere e i timori di un popolo.

La costruzione della diga iniziò nel 1957, sotto la supervisione dell’ingegner Carlo Semenza, capo progettista,e del geologo Giorgio Dal Piaz. I due sminuirono fin dall’inizio le paure relative a rischi geologici ed eventi franosi che potevano essere provocati da un intervento di quelle proporzioni sul versante sinistro della montagna. I rilevamenti condotti sul monte Tóc infatti non avevano dato esiti incoraggianti ma, nonostante i forti dubbi circa la sicurezza della zona, si scelse di andare ugualmente avanti.

La diga del Vajont fu terminata in circa tre anni e l’invaso iniziò ad essere colmato, senza neppure aspettare di ottenere il permesso dal governo, né per avviare la costruzione né per il riempimento del bacino. La SADE del resto era un’azienda molto influente e nemmeno la Commissione di collaudo, istituita dal Ministero dei Lavori Pubblici nel 1958 con il compito di controllare il buon funzionamento della diga, rilevò mai aspetti negativi nell’operato dei responsabili.
Nel frattempo gli abitanti della vallata del Vajont dovettero affrontare questa nuova realtà che, se da una parte prometteva di portare lavoro e benessere in un luogo fino ad allora legato all’economia povera della montagna contadina, dall’altro invadeva case, terreni e possedimenti, dei quali comunque avrebbero dovuto continuare a vivere, attraverso una serie di compravendite ed espropri effettuati spesso con arroganza e indifferenza.

Quasi nessuno ascoltò le rimostranze degli ertani e nemmeno diede importanza ai timori che iniziavano a nascere dopo aver sentito forti boati e scosse sismiche che causavano anche fratture del terreno nella valle. Una delle poche persone che volle dare veramente voce alle proteste dei paesani fu la giornalista bellunese Tina Merlin. Corrispondente dalla provincia di Belluno per il giornale L’Unità, la Merlin scrisse diversi articoli, nei quali raccolse e raccontò testimonianze e paure degli abitanti, preoccupati e oppressi, per descrivere l’atmosfera che si respirava intorno alla diga e fu sempre lei a lanciare l’allarme per l’altissimo rischio che si stava correndo.


Una minaccia annunciata.

Già nel 1960, infatti, si verificò una prima frana del monte Tóc, la quale faceva seguito a un altro incidente avvenuto nel bacino artificiale di Pontesei, anch’esso costruito dalla SADE nella Val Zoldana, valle del bellunese: nel 1959 una grossa frana precipitò nel lago di Pontesei e causò un’ondata che travolse e uccise Arcangelo Tiziani, il quale lavorava alla diga come custode.

Il primo franamento del Tóc, il 4 novembre 1960, fece cadere nell’acqua del bacino del Vajont circa 700.000 metri cubi di materiale e l’ondata che ne seguì fortunatamente non provocò vittime, ma solo tanta paura. Quello fu un segnale chiaro della precarietà della montagna e della minaccia che poteva derivarne. L’esperto austriaco Leopold Müller, interpellato dalla SADE, aveva intuito da alcuni suoi studi che esisteva la possibilità di pericoli effettivi data l’instabilità della roccia anche se inizialmente non si era reso conto della gravità della situazione della montagna: sotto di essa scorreva infatti una vasta paleo-frana che verrà scoperta da Edoardo Semenza, figlio di Carlo Semenza, al quale fu dato il compito di redigere una relazione geologica sul Vajont sempre per conto della SADE, nel 1959.

Immagine del lago e della diga
Inizio invaso nel bacino artificiale del Vajont.

Giorgio Dal Piaz e Pietro Caloi, geofisico che fu chiamato anch’esso dalla SADE a studiare la roccia del monte Tóc, non diedero però peso a questa nuova, allarmante rivelazione, credendo a versioni più rassicuranti circa lo strato della montagna. Ma dopo la frana del 4 novembre, sul monte Tóc si aprì la lunga spaccatura a forma di “M” dalla quale si muoverà il tremendo crollo del 1963. Essa fu individuata da Leopold Müller il quale in un ulteriore studio stabilì che la frana in movimento non poteva essere fermata. Negli anni successivi al 1960 si effettuarono quindi studi e prove sui livelli dell’invaso nel tentativo di conoscere gli effetti della caduta del materiale roccioso, dal momento che ormai era evidente che esso sarebbe scivolato inevitabilmente nel lago artificiale. I lavori si sarebbero dovuti fermare ma questo, per interessi economici, politici e personali, non avvenne e i responsabili e i tecnici della SADE continuarono a nascondere agli organi di controllo i dati preoccupanti che stavano raccogliendo. Lo studio di Müller aveva dichiarato che non era possibile frenare la grande frana del Vajont e si poteva ormai soltanto tentare di gestire e contenere la sua caduta. L’idea fu quella di far scivolare il materiale roccioso nell’acqua in modo lento e controllato riempiendo e svuotando il lago, in modo da evitare più danni possibili. Fu anche costruito un by-pass, una galleria di sorpasso scavata nella parte destra della vallata, che in caso di franamento avrebbe garantito il controllo del fluire dell’acqua e protetto il meccanismo e le funzioni dell’impianto idroelettrico. La SADE decise di compiere alcuni esperimenti in scala per scoprire come si sarebbe comportata la frana cadendo nell’acqua a diverse altezze degli invasi.

Nel 1961 la SADE affidò questi studi ad Augusto Ghetti, direttore dell’Istituto di Idraulica dell’Università di Padova, il quale fece costruire un modello della diga in scala 1:200 a Nove, vicino a Vittorio Veneto, dove le varie prove, basate su elementi procurati dalla SADE stessa e utilizzando materiale ghiaioso molto diverso da quello effettivo del Tóc, diedero risultati imprecisi.
La gente ormai aveva capito che qualcosa di gravissimo sarebbe successo ma le paure e gli allarmi per i continui rimbombi e le scosse di terremoto che si sentivano sempre più spesso non vennero accolti. Soltanto due giorni prima del disastro l’ENEL ordinerà di evacuare alcuni stabili che si trovavano vicino alle pendici del Tóc, senza preoccuparsi di far sgomberare l’intero paese o di mettere in allerta anche gli abitati del fondo valle.


La catastrofe del Vajont.

Nel marzo del 1963, sotto la direzione degli ingegneri Mario Pancini e Alberico Biadene, che era diventato direttore del servizio costruzioni idrauliche dopo la morte di Carlo Semenza, il lago venne riempito fino all’altezza di 715 metri, quota che superava la misura di sicurezza fissata durante gli esperimenti di Nove. Poi fu ordinato di svuotare nuovamente il lago per controllare l’accelerazione della frana, la quale però ormai, sottoposta alle continue tensioni degli invasi e degli svasi, divenne incontenibile e precipitò rapidamente e compatta nel lago del Vajont ancora ricolmo d’acqua.

Alle 22.39 del 9 ottobre 1963 l’immane frana di più di due chilometri fece crollare nel lago del Vajont una massa di circa 300 milioni di metri cubi di roccia e terra che sollevò una colossale ondata di 48 milioni di metri cubi d’acqua. L’onda si alzò edesplose in tre flussi: uno lambì e risparmiò Casso, un altro andò a colpire alcune località di Erto che si trovavano sulla sponda del lago –Pinéda (Ruáva), Prada, Marzana, Lirón, San Martino, Le Spesse, Fraséign, Il Cristo – spazzandole via. Il terzo piombò su Longarone con forza devastante, distruggendola completamente.

L’acqua, colpendo Erto, Longarone e le loro frazioni, ma anche i comuni adiacenti(Codissago e Castellavazzo), trascinò con sé famiglie, uomini, donne, bambini, case, terreni,boschi, animali, vite intere cancellate nel tempo di soli quattro minuti.

Fu una strage: il bilancio delle vittime fu di quasi 2000 morti, annientati assieme a un territorio, una storia e una cultura che non hanno mai più riacquistato le loro fattezze originarie.

I superstiti furono sfollati in diversi luoghi della pianura friulana e bellunese, dove vennero anche costruiti due nuovi abitati per accogliere i superstiti, Vajont vicino a Maniago in provincia di Pordenone, e Nuova Erto a Ponte nelle Alpi in provincia di Belluno. I sopravvissuti dovettero convivere con il dolore e la rabbia per quanto era accaduto, cercando di recuperare una parvenza di normalità, in posti lontani da quella che fino a poco tempo prima era stata la loro terra, da quello che era stato tutto il loro mondo. Solo diversi anni dopo Longarone fu riedificata e poté accogliere nuovamente i suoi abitanti e cominciare poco a poco a tentare di vivere. Gli ertani invece ripresero possesso del Comune portando avanti una dura protesta nel dopo Vajont: a tutti era stato proibito di accedere in paese dal momento che esso era stato dichiarato, a sciagura ormai avvenuta, troppo rischioso per viverci, un’attenzione inutile e tardiva.

La valle del Vajont dopo il disastro
Disastro del Vajont: il giorno dopo.

Vajont: Dopo la tragedia.

I responsabili di quella terribile tragedia annunciata non furono nemmeno condannati tutti. La causa penale ebbe inizio nel 1968 con il processo di primo grado che si svolse in Abruzzo, a L’Aquila, lontano dalla sede del Tribunale di Belluno dove avrebbe dovuto svolgersi per evitare, come avevano richiesto gli avvocati difensori della SADE-ENEL, di turbare l’ordine pubblico e l’andamento regolare del processo. Nulla vietò però a molti sopravvissuti di recarsi all’Aquila per assistere con i loro occhi al processo presieduto dal giudice istruttore Mario Fabbri. In quella iniziale occasione furono rinviati a giudizio undici responsabili delle vicende del Vajont: Biadene, Ghetti, i membri della Commissione di collaudo Pietro Frosini, Francesco Sensidoni, Francesco Penta e Luigi Greco (anche se Penta e Greco erano nel frattempo deceduti), Curzio Batini, presidente della IV Sezione del Consiglio superiore per i Lavori Pubblici, Almo Violin, ingegnere capo del Genio Civile di Belluno, Dino Tonini, capo dell’ufficio studi della SADE, Roberto Marin, direttore generale della SADE-ENEL, e Pancini, il quale si tolse la vita prima dell’inizio del processo. La causa penale però si trascinò per più di otto anni e si concluse con una pena, per altro assai leggera, per due soli imputati: Alberico Biadene e Francesco Sensidoni, il quale oltre ad aver fatto parte della Commissione di collaudo fu anche capo del servizio dighe al Ministero dei Lavori Pubblici.

La diga del Vajont

La diga del Vajont è stata l’unica costruzione a non subire danni dopo essere stata colpita dall’impeto violento dell’acqua: essa fu appena scalfita sulla sommità del coronamento. Ancora oggi i numerosi visitatori che giungono nella zona del disastro la possono vedere, radicata e inamovibile, nello stesso preciso punto nel quale fu innalzata, che taglia in due con la sua mole il profilo tra Veneto e Friuli, un luogo che non sarà mai più lo stesso dopo la notte del 9 ottobre 1963.